So di arrivare tardi a recensire questo libro, edito da Bompiani nel settembre del 2014 e già dotato di una bella collezione di premi e riconoscimenti, ma trattandosi di un romanzo destinato a conquistare un posto duraturo nella letteratura italiana per ragazzi, posso pensare di non essere fuori tempo.
Basterebbe soffermarsi sul titolo per accorgersi della sensibilità linguistica con cui il libro è stato scritto. Fuori fuoco: un’allitterazione, carica di vocali scure, e un’onomatopea. Se poi passiamo dal suono al significato, il titolo sta a indicare la posizione in cui si trovano le donne in tempo di guerra, quando tutta l’attenzione è centrata sui soldati, le battaglie, il nemico, la gloria – tutte cose da maschi: le donne rimangono sullo sfondo, quasi invisibili, fuori fuoco rispetto allo sguardo collettivo e fuori tiro rispetto al fuoco diretto delle armi nemiche, salvo quando le bombe cadono dal cielo sulla piazza del mercato, come avviene nel bombardamento di Udine del 19 novembre 1915.
Tanta pregnanza in due sole parole non ci sorprende, perché sappiamo che l’autrice è poetessa, capace di mettere il mare in una rima. Ed è facile cogliere questa sua vocazione poetica nell’andamento sicuro e melodico con cui si sviluppano i periodi, fatti di parole pulite e levigate; e ancora, nelle tante immagini semplici e liriche disseminate qua e là nella narrazione, sempre con naturalezza.
"Eravamo in cucina, a sbaccellare i fagioli. Mafalda era a letto già da un pezzo. Sandro ci raccontava le storie che aveva sentito dai soldati, ma raccontava solo quelle che andavano a finire bene: come quella di un tenente che per sbaglio nella fretta di un contrattacco si era messo l’elmetto di acciaio alla rovescia, e questo l’aveva salvato da un proiettile che altrimenti gli avrebbe trapassato la fronte.
Quando anche Sandro ci ha dato la buonanotte, io e zia Adele siamo rimaste in silenzio. L’unico rumore era il rullio dei fagioli che cadevano dal baccello nel piatto di terracotta.
Le bucce si aprivano come sorrisi tra le dita agili di zia Adele. La fiamma delle candele faceva parlare le ombre delle nostre mani sul muro."
I protagonisti dei romanzi assomigliano spesso ai loro autori, nel modo di percepire la realtà e di metterla in parole. Jolanda, la ragazza che racconta in prima persona la propria odissea nel Friuli martoriato dalla grande guerra, mostra di avere la stessa sensibilità acustica della sua autrice, la stessa capacità di accostarsi al mondo e ai suoi enigmi con l’orecchio. Basti leggere, a riprova, la riflessione che traccia intorno alla parola censura, una parola che appartiene al lessico del potere (un lessico adulto e maschile), nella quale tuttavia la ragazza coglie una sottile corrispondenza, di suono e di significato, con un’altra parola in apparenza del tutto estranea.
"Censura. Una parola soffocante. Mi ricordava la cenere che si ammucchia nei secchi per fare la liscivia e lavare i panni. La censura lava via le storie delle persone, le loro vite, le loro morti."
Non succede di frequente che un poeta sia in grado di esprimere una prosa altrettanto felice, perché il poeta tende a sostare su ogni singola parola per curarne il suono, il ritmo, il senso, cercando legami e richiami. Come Cappuccetto Rosso, che si china a odorare ogni fiore del prato anziché correre dritta alla casa della nonna, il poeta rischia di lasciarsi fuorviare dall’amore per le parole, e di perdere il tempo e la misura, sacrificando le storie alle stesse parole con cui le racconta.
Dice Bianca Pitzorno nella Storia delle mie storie a proposito della propria scrittura: «Non mi importava dello stile. L’unica cosa che mi interessava era l’intreccio, la storia». E aggiunge: «Non avevo la stoffa della poetessa, ma quella della raccontastorie». Non c’è dubbio che Bianca Pitzorno se la possa permettere, una certa indifferenza nei confronti delle questioni stilistiche, campionessa di narrazione com’è. Ma ho voluto citare queste frasi della scrittrice sarda per evidenziare come, al contrario, la prosa di Chiara Carminati sia fatta proprio di una pregiata stoffa poetica, che ricorda, sotto questo aspetto, la scrittura di un’altra narratrice italiana, molto amica di Bianca Pitzorno – e da lei così diversa. Mi riferisco a Donatella Ziliotto, autrice di uno dei libri per ragazzi più belli che siano usciti in Italia sul tema della guerra, Un chilo di piume un chilo di piombo, ambientato a Trieste durante la seconda guerra mondiale. Per questo, al termine della lettura, ho riposto il romanzo di Chiara accanto al piccolo capolavoro di Donatella, sullo stesso scaffale colmo di qualità letteraria. Udine e Trieste: due città che si trovano in posizione decentrata rispetto alla vita culturale nazionale. Ma spesso, appunto, ciò che è prezioso si trova fuori fuoco.
Nicola Cinquetti